160^  STAGIONE LIRICA

 

 

TRAMA

Parigi, verso il 1830. Nella loro soffitta Rodolfo (poeta), Marcello (pittore), Schaunard (musicista) e Colline (filosofo) decidono di festeggiare la notte di Natale al Quartiere Latino. Rodolfo però si trattiene a terminare un articolo per il giornale cui collabora. Bussa alla porta Mimì, una fioraia che abita in una soffitta vicina; le si è spenta la candela e non ha nulla per accenderla, ma appena entrata si sente male ed il poeta l’aiuta a rianimarsi. Cercano assieme la chiave caduta a Mimì: Rodolfo la trova ma furtivamente la intasca e, fingendo ancora di cercare, prende la mano della fioraia e le parla di sé (Che gelida manina): Mimì, turbata, gli narra la sua vita. Colpito da quelle parole, Rodolfo dichiara il suo amore a Mimì (O soave fanciulla) e la convince a passare la serata insieme a lui e agli amici con la sottintesa, reciproca promessa di cominciare poi una vita insieme.

Nel Quartiere Latino siedono tutti al Caffè Momus. Tra la folla c’è anche Musetta in compagnia del vecchio ma ricco Alcindoro. Appena vede Marcello, del quale era stata amante ma che aveva lasciato per una vita più agiata, Musetta siede ad un tavolo vicino e cerca di suscitare la gelosia del pittore (Quando m’en vo’). Allontanato con un pretesto Alcindoro, Musetta si getta alfine tra le braccia di Marcello e torna a vivere con lui.

Qualche tempo dopo, alla periferia di Parigi, dove Marcello sta affrescano una locanda, Mimì viene a cercare conforto dall’amico, narrandogli la sua vita burrascosa col poeta. Sopraggiunge Rodolfo e confida a Marcello che la fioraia, molto malata, è destinata a morire presto; non potendo che offrirle che una gelida soffitta, è deciso a lasciarla. I singhiozzi di Mimì, che si era nascosta nei pressi, rivelano a Rodolfo la sua presenza e i due giovani, pur amandosi, decidono di lasciarsi a primavera. Anche Marcello e Musetta si lasciano dopo un furioso litigio provocato dalla gelosia del pittore. Per pagare un medico Musetta vende i suoi orecchini e Colline impegna il suo cappotto (Vecchia zimarra). Rodolfo e Mimì, soli, si abbandonano al ricordo del loro amore. Quando tornano gli amici la fioraia si assopisce, ma ad un tratto Schaunard si accorge che Mimì è spirata. Rodolfo si getta sul corpo della fanciulla invocandone, disperato, il nome.

 

I atto

È la Parigi delle soffitte, degli anfratti, dei chiaroscuri, dei cieli sui tetti. È volutamente sottolineato lo spirito di grande precarietà dei giovani, che vivono in una sorta di “villaggio aereo”, sito metaforicamente “tra le nuvole”. Lassù i ragazzi condividono tutto: il freddo, la fame, gli stenti, pronti all’amore e all’amicizia. Questa condizione non può che creare rapporti di straordinaria e rarefatta freschezza, di profonda sincerità; è un manifesto da cui tutti noi probabilmente siamo stati attratti e in cui siamo pronti a riconoscerci.

 

II atto

Siamo al Cafè Momus, lungo Senna; il luogo per eccellenza dove incontrare di più, dove poter affermare il desiderio di contatto con gli altri, in una sorta di accumulo collettivo delle singole energie; luogo dove far esplodere la voglia di conoscersi e di ritrovarsi. C’è musica dentro e fuori il Cafè, si urla, c’é mercato, ognuno s’arrangia: chi vende fiori, chi frittelle, chi cimeli di guerra, chi serve al banco, chi suona: non c’é ombra di miseria, ci si unisce, piuttosto, per contrastarla, e tutto questo brulichio di gente non può che esprimere una grande ricchezza: il desiderio comune di costruire nuovi rapporti, dimenticare il passato e spingersi verso il futuro. È una nuova generazione che avanza...

 

III atto

La Barriere d’Enfer era la dogana; rappresentava il passaggio da una parte all’altra della città. Ho pensato a Mimì, al suo peregrinare tra le vie nebbiose di Parigi; Parigi, come propria casa, o meglio come viaggio introspettivo nel suo animo, in un passaggio tormentato, continuo, tra l’amore e l’amicizia. L’effetto di questo terzo atto è una visione onirica, come se Mimì fosse immersa e attraversata da un sogno in cui appaiono i suoi legami con Marcello, poi Rodolfo, l’amica Musetta, voci e ombre lontane del quartiere... un percorso attraverso il quale ritrova l’amore di Rodolfo e con lui si tuffa verso... la stagion dei fior... la primavera. È la speranza.

 

IV atto

La jeunesse n’a qu’un temps, ultimo capitolo del romanzo Scènes de la vie de Bohème di Murger, da cui Puccini rimase affascinato, e tema portante dell’ultimo atto de La Bohème. Ritroviamo Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline, di nuovo pronti inesorabilmente per l’ennesimo trasloco, come succedeva veramente non pagando la pigione... Cambiano semplicemente alloggio o cercano disperatamente di rimanere attaccati al loro modus vivendi? Mimì, ormai morente, torna da loro sui tetti verso l’aria, ricercando la passata leggerezza, i suoi  soffi soavi, dolci, ricerca la spensieratezza e la goliardia dei suoi quattro amici.

La morte li sorprende tutti! Non la conoscono. I ragazzi, con Musetta, restano attoniti, si stringono intorno a Mimì e al loro, e nostro, sogno svanito di una vita senza profondi dolori e angosce.

 

 

NOTE CRITICHE

Nessun soggetto quanto quello de La Bohème era stato più vissuto da Puccini. La bohème fanfarona ed insolente l’aveva vissuta al conservatorio. Se proprio non la fame, Puccini aveva conosciuto tuttavia quelle sfumature dell’appetito lungamente trascurato che danno allo stomaco un languore che è sentimentale soltanto per i poeti. La bohème vera era passata attraverso la giovinezza del Lucchese prima di ridere e piangere nell’opera sua fortunatissima.

Fu Leoncavallo a proporre a Puccini un suo libretto intitolato Vita di Bohème; ma Puccini, cui frullavano altre idee per il capo e non conosceva ancora il romanzo di Murger, oppose un cortese rifiuto, senza neppure leggere il lavoro del collega. Solamente un anno dopo, essendogli capitato fra le mani il capolavoro di Murger, ed essendone rimasto entusiasmato, tanto fece e tanto tempestò che Giacosa ed Illica, col paterno aiuto di Ricordi, approntarono il libretto dell’opera famosa. Se non ci fosse stato di mezzo il buon “Sor Giuli”, sarebbe andato tutto a monte, perché Puccini ed Illica attaccavano continuamente liti d’inferno. Giacosa mansueto e Ricordi conciliante furono una vera provvidenza. Quando Puccini incontrò Leoncavallo a Milano e gli parlò casualmente del lavoro che stava facendo, l’autore de I pagliacci montò su tutte le furie, non senza avvertire che il libretto, dopo il rifiuto di Puccini, lo stava musicando lui. «Benissimo» argomentò Puccini, «ci saranno due Bohème!». Si lasciarono senza più parlarsi.

L’opera di Puccini fu data a Torino non molto tempo dopo quel vivace scambio di opinioni; quella di Leoncavallo venne invece più tardi.

«Ho sprecato più carta per poche scene di Bohème che per nessuno dei miei lavori drammatici», diceva sorridendo Giacosa.

Pare impossibile che un libretto fresco, limpido, semplice, spontaneo come quello de La Bohème possa aver dato tanta pena ai poeti. D’altronde, l’immortale racconto di Murger era troppo ricco di figure, di episodi, di scene per essere raccolto e condensato agevolmente in una sintesi. E Puccini, al solito, non si accontentava mai, fermo e irremovibile nella sua visione che, dall’architettura del quadro, scendeva ad indugiarsi accanitamente sui particolari in apparenza più futili e più minuti. E si faceva sentire: «Ora Bohème la vedo, ma col Quartiere Latino, con le scene di Musetta che trovai io. E la morte la voglio come l’ho ideata io, e sono sicuro di fare un lavoro originale e vitale.» La morte di Mimì! E cioè: tutto lo scopo, la ragion d’essere del quarto atto, rifatto daccapo quattro volte. «Quando questa ragazza» scriveva Ricordi, «per la quale ho tanto lavorato, muore, vorrei che uscisse dal modo meno per sé, e un po’ più per chi le ha voluto bene!» Aggiungendo: «Quando trovai quegli accordi scuri e lenti e li suonai al piano, venni preso da una tale commozione che dovetti alzarmi e in mezzo alla sala mi misi a piangere come un fanciullo. Mi faceva l’effetto di aver visto morire una mia creatura.»

Quella sua creatura, così teneramente amata, così accarezzata, così curata, egli se la vide dileggiata da una critica ferocemente ostile il giorno che seguì la prima rappresentazione, avvenuta il 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino, direttore Arturo Toscanini.

Ma ben presto i preconcetti furono sterilizzati e La Bohème riempì le sale di tutti i teatri del mondo, tanto da risultare, a tutt’oggi, l’opera più eseguita di tutti i tempi.

 

Franco Bombelli

 

NOTE DI REGIA

Come possa aver fatto Giacomo Puccini a costruire una macchina teatrale così perfetta, dedicata a quella felice stagione della nostra libertà irresponsabile, chiamata giovinezza, me lo chiedo ancora oggi, da regista impegnato nella lettura teatrale dell’opera, ma soprattutto come compositore.

Provo una grande sintonia, oltre che profondo amore, verso questa straordinaria partitura, e resto ancora una volta stupito di come, nonostante i suoi centodieci anni, ancora oggi rappresenti con infinita freschezza tutti i sentimenti di questo periodo: amore e amicizia, leggerezza d’animo e... di tasche, spensieratezza, goliardia, condizione di semi-immortalità.

Forse sta proprio qui il motivo del grande successo che attraversa tutto il Novecento con intatta vitalità, consacrando La Bohéme tra i capolavori in assoluto di tutti i tempi, pienamente convinti che si può contestualizzare l’opera anche in un periodo diverso da quello originario, magari più spinto sul Novecento e di più facile lettura per le nuove generazioni. E una straordinaria occasione di grande fascino e atmosfera proviene, di nuovo, da Parigi: siamo nel secondo dopoguerra, intorno al 1948, quando nel quartiere di Saint-Germain le soffitte e i tetti riprendono a pulsare riportando lassù, vicino ai cieli bigi, intellettuali, artisti, pittori, poeti, scrittori (ricordo Juliette Greco, Simon de Beauvoir, Sartre...) tutti coinvolti da un desiderio frenetico di vivere, mentre trascorrono le proprie giornate dividendosi tra soffitte e caffè lungo Senna.

 

Aldo Tarabella