C’era una volta…….il bene comune

Smarrito nei meandri del neoliberismo

 

(Mantova, 14 ottobre 2007)

 

            Una volta si dava per scontato, sottinteso e logico come il sorgere del sole. Ed era l’unità di misura, il criterio per valutare la salute di una nuova società, ma anche l’onestà e il senso civico dei suoi cittadini. Parlo del “bene comune” di cui si tornerà a parlare nella prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani a Pisa. Già, perché è diventato un po’ come l’araba fenice: “che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

 

      Ora sono diventati altri i criteri per misurare lo stato di salute della società e anche tanti cattolici li hanno adottati mettendo in soffitta il bene comune, magari assieme a quelle vecchie cose, quelle che si guardano con distaccata tenerezza.

     

      Ma il bene comune rimane sempre un pilastro fondamentale della sociologia cattolica e della Dottrina sociale della Chiesa. Perché esso corrisponde alla dignità di ogni persona umana, che tutti sono chiamati a costruire, di cui tutti devono poter godere e che è preminente rispetto al bene individuale. Anche perché lo stesso individuo lo trova solo nella società. In sintesi, è il bene che giustifica ed è fondamento della politica intesa come costruzione della “polis” e della cittadinanza.

 

      Eppure, come dicevo, è stato messo i soffitta e sostituito da altri criteri. Il criterio del PIL (prodotto interno lordo) per cui è più importante che il PIL cresca anche se le persone poi crepano di fame. Il criterio dell’economia di mercato, figlia naturale del PIL, che riduce tutto a merce: anche il sangue, gli organi e i bambini. Oggi siamo giunti al punto che il peccato più orrendo che si possa compiere è la “turbativa di mercato”. Peggio che assassinare. E chi si macchia di questo delitto dovrebbe andare in giro ramingo come Caino.

 

      Si riconosce, a parole, che tutti hanno diritto alla sopravvivenza, al minimo necessario per vivere. A questo ci pensa la “mano invisibile” di Adamo Smith, che qualcuno ha scambiato per la divina provvidenza. Succederebbe cioè che l’accumulo della ricchezza ridonderebbe per moto spontaneo a favore dei poveri. Gli economisti oggi più in voga parlano di “sgocciolio” e di “super computer”. Di conseguenza non sarebbe  più necessaria la volontà politica per innescare la redistribuzione dei beni.

 

      Per sfatare questa, che è un’autentica favola, basta considerare il fatto che in questi ultimi vent’anni mai è stata prodotta nel mondo tanta ricchezza  e contemporaneamente mai si è così allargato il divario fra ricchi e poveri. Da una parte un mondo che rischia di morire per indigestione e, dall’altra, centinaia di milioni di persone che muoiono di fame. Allora, o lo sgocciolio non funziona oppure un virus maligno ha sballato il super computer.

 

      La verità è che al presunto spontaneismo e a reale egoismo dei ricchi deve subentrare per volontà politica il criterio del bene comune. Che è il grande assente in barba alle sbandierate dichiarazioni di ispirazione cristiana che attraversano tutto l’arco costituzionale.

 

      Se vogliamo una prova certa, basta che ci ricordiamo dello scalpore suscitato dal discorso del card. Bertone al Meeting di Rimini di fine agosto. Che cosa ha detto di tanto sensazionale e di nuovo? Che tutti devono pagare le tasse in proporzione al proprio reddito e alla propria ricchezza. E che le tasse sono la moralità moderna, civile, per contribuire al bene comune.

 

      I patiti dell’identità cristiana, per la quale sarebbero disposti a fare le crociate, hanno proposto invece lo “sciopero fiscale”. Peraltro possibile solo a chi le tasse può evaderle o effettivamente le evade. Perché la grande massa dei lavoratori dipendenti le paga comunque.

 

      Ben venga quindi una seria riflessione sul bene comune. Equivale ad una seria riflessione sul cristianesimo.

 

Pierluigi Leoni

ACLI Mantova

 

 

 

Mantova, 9 ottobre 2007