Ingegnere e fotografo
SUOI SCRITTI
Sino a non molto tempo fa si parlava di Mantova come della bella addormentata. Oggi, stando ad un paio di interventi comparsi sul Fuorisacco della Gazzetta a breve distanza l’uno dall’altro (1 e 5 Novembre 09) sorge il dubbio che non si tratti più di sonno ma di coma profondo se non di morte.
Il piccolo commercio scompare, i negozi del centro chiudono, non ci sono più latterie, macellerie, salumerie le vie e le piazze sono vuote, deserte.
Chi sono i responsabili di questo sconvolgimento il cui inizio si fa risalire ad una ventina di anni fa ?
La grande distribuzione, i problemi di accesso alla città e la mancanza di parcheggi sono gli indiziati maggiori, ma questa diagnosi è corretta ?
La grande distribuzione ovvero il mondo cambia
Non intendo ergermi ad avvocato difensore della grande distribuzione; tuttavia ritengo di esporre alcune osservazioni che contrastano con quelle che mi sembrano tesi legate ad interessi elettorali (a Marzo si vota) più che originate da una analisi serena. Il comune di Mantova, nell’arco di tempo compreso tra il 1991 ed il 2008, ha visto i suoi abitanti diminuire di circa 5000 unità mentre, nello stesso periodo, tutti i comuni confinanti hanno registrato un notevole aumento demografico.
E’ questo un dato che dovrebbe indurre a porsi un quesito: è pensabile che al diminuire della popolazione non corrisponda una riduzione dell’attività commerciale a corto raggio, quella cioè che interessa i cosiddetti negozi di vicinato ?
Sempre tra il 1991 ed il 2008 il personale impiegato nella industria ha subito forti riduzioni: la Belleli è scomparsa e chi ne continua l’attività coinvolge un numero decisamente inferiore di addetti, la Polimeri soffre della crisi che da molti anni ormai tormenta la vita della chimica italiana, la Burgo ha fatto tagli su tagli, la IES tira avanti.
Può questa falcidie di posti di lavoro essere avvenuta senza causare ricadute negative su una città come la nostra che non offre alternative in abbondanza?
Già ben prima del 1991 il nostro modo di vivere aveva incominciato a cambiare. Molte donne, soprattutto le giovani, hanno rifiutato il tradizionale ruolo di “angeli del focolare” che tutti i giorni escono con la sporta sotto braccio per fare l’abitudinario giro di compere sotto casa preferendo andare a lavorare per essere indipendenti o per contribuire al mantenimento della famiglia.
La conservazione dei cibi non è più legata alle condizioni meteorologiche (d’inverno si mettevano i cibi sul davanzale della finestra, magari tra i doppi vetri, e per qualche giorno si andava avanti) o al progenitore del frigorifero, la ghiacciaia (d’estate tutte le mattine bisognava rincorrere il carretto del ghiaccio per procurarsene un pezzo con cui raffreddare nuovamente le esigue scorte).
Ai giorni nostri, grazie a frigoriferi e congelatori, le compere si fanno per la settimana o la quindicina a venire e si è quindi obbligati ad utilizzare l’auto per caricare la quantità di vettovaglie che, talvolta, assume una mole tale da far pensare che tutto quel ben di dio serva a sfamare un esercito piuttosto che una famiglia: quanto tempo richiederebbe fare acquisti come questi se ci si dovesse recare di negozio in negozio?
E’ possibile che il nostro mondo sia cambiato e continui a cambiare (si può discutere se i cambiamenti sono o meno positivi) senza che tutto e tutti si sia coinvolti?
Forse è il caso di studiare come gestire i cambiamenti per ottenerne il meglio piuttosto che continuare a stimolare la conservazione tanto inutile quanto retriva.
Traffico e parcheggi ovvero siamo tutti invalidi
Quando si parla di serrande che non riaprono, di vetrine spente, di negozi che non ci sono più regolarmente si additano come responsabili della moria le tasse, i parcheggi che mancano, l’inettitudine dei reggitori del Comune, ma, altrettanto regolarmente, si dimentica di parlare del costo degli affitti.
Quanto costa, oggi, affittare un negozio in centro, di quanto sono aumentate le pigioni negli ultimi venti anni?
Quando sento parlare di “scelta apparentemente suicida” a proposito della chiusura ai mezzi motorizzati di “vaste aree del centro” provo il desiderio di diventare per un giorno, per un giorno solo, il duce onnipotente ed incontrastato della città per togliere tutti i divieti, tutte le limitazioni riguardanti il traffico.
Mi piacerebbe vedere come potremmo muoverci con le nostre automobili nella rete viaria del centro. E, ammesso che, per qualche miracolo, si riuscisse a circolare, dove fermarsi?
Il centro della nostra città, come quello di tutte le altre disseminate sulla Penisola, è vecchio di centinaia di anni e quindi, ovviamente, non è in grado di consentire a grandi quantità di auto di muoversi liberamente e tantomeno di consentirne la sosta ovunque e comunque.
Da tempo immemorabile si parla di parcheggi in struttura ma, a parte quello esistente in via Mazzini, ad oggi, non se ne sono realizzati altri: tutte le proposte sono state scartate e, soprattutto, sono state massacrate appena formulate in nome del principio che tutto può essere fatto ovunque ma non nel mio orto.
Si dice che sostare nelle zone a pagamento sia caro, molto caro: vogliamo fare un confronto con le tariffe delle città vicine?
Si preferisce girare per ore a caccia di un parcheggio improbabile piuttosto che fermarsi, ad esempio, in zona stadio da dove, in pochi minuti, si può raggiungere a piedi il centro.
Andiamo in palestra e ci sottoponiamo a diete cervellotiche pur di calare di qualche grammo ma l’idea di camminare, evidentemente, ci sconvolge.
Se un marziano atterrasse nei pressi di una qualunque delle nostre scuole nei momenti di entrata ed uscita degli scolari, dato l’accatastarsi disordinato delle auto nei pressi degli accessi, sicuramente sarebbe indotto a pensare che i nostri giovani (molti obesi o sovrappeso) nascono privi di gambe.
E che dire delle auto in sosta in doppia fila nei pressi di locali in voga: scendere dal mezzo e percorrere cento metri a piedi per recarsi a bere il caffè o gustare l’aperitivo scambiando due chiacchiere con gli amici evidentemente è un esercizio in gradi di stroncare i più forti.
Si creano pericoli anche seri agli altri cittadini e si contribuisce fattivamente a peggiorare le condizioni del traffico pur di non sottostare all’umiliante pratica della deambulazione.
Il decentramento ovvero polemizziamo in eterno
Certamente il trasferimento di enti importanti al Boma ha contribuito a ridurre la quantità di persone che si tutti i giorni si recavano al lavoro in centro ma chi critica il decentramento di uffici e attività in cui operano decine e decine di impiegati e che quotidianamente richiamano un elevato numero di utenti da tutta la provincia è in grado dire dove si potrebbero parcheggiare le auto ?
Perché nessuno di coloro che scendono in campo in difesa del centro e che militano in partiti di governo non impongono ai loro rappresentanti a Roma di potenziare linee ferroviarie ed altre forme di trasporto collettivo così da convincerci a rinunciare all’uso dell’automobile?
Forse, elettoralmente parlando, conviene lasciare trapelare il dubbio che il Boma ed altre operazioni simili siano frutto di losche manovre tra avidi capitalisti e incapaci politicanti piuttosto che esercitare una forte pressione su tutti coloro che possono rendere realtà il sogno di una metropolitana leggera Verona – Mantova?
Quante auto in meno avremmo a Porta Mulina e quanti vantaggi ne ricaveremmo tutti? Quanti posti di lavoro nuovi si potrebbero avere se Mantova fosse collegata al resto dell’Italia in modo moderno?
Dalla stazione si raggiunge il centro con una passeggiata di pochi minuti: di certo molti si sentirebbero incoraggiati a fare un breve viaggio su un treno veloce, puntuale e pulito per venire in città a fare compere o a sbrigare pratiche lasciando la macchina in garage. Ma dove sono i treni veloci, puntuali e puliti?
Meglio lasciare trapelare dubbi di camarille e malaffare così da prolungare a dismisura le solite, sterili polemiche piuttosto che mettere sotto pressione gli amici di Milano e Roma per fare avere alla nostra città servizi e trasporti degni dei tempi che viviamo.
Ing. Alberto Mazzocchi
Alle 22,39 del 9 Ottobre 1963 dalle pendici del Monte Toc si staccavano 270 milioni di metri cubi di roccia che, piombando nel sottostante bacino artificiale creato dalla ben nota diga, sollevavano un’onda di terrificante potenza distruttiva. L’acqua, quasi compressa dalla stretta valle, travolgeva tutto quanto incontrava salendo sino ad Erto e Casso per abbattersi poi su Longarone.
Il drammatico bianco e nero delle indimenticabili fotografie di Mario De Biasi ci permettedi rivedere quanto si presentò agli occhi dei soccorritori: un paesaggio sconvolto, spianato, solo morte, rovine, distruzione. Più di 1900 persone persero la vita, nessuno dei responsabili pagò in modo adeguato.
Dal Vajont ad oggi sono avvenute altre catastrofi le cui proporzioni sono state quasi sempre enfatizzate ed aggravate dal concorso di fenomeni naturali ed azione umana: in Italia c’è stato un perverso concorso di colpa tra cattivi governi e pessimi cittadini. Gli uni non hanno governato o hanno governato male mentre gli altri hanno agito in dispregio a leggi, regolamenti e buon senso pur di soddisfare piccoli o grandi interessi privati per soddisfare
L’Aquila, Viareggio, Messina sono le ultime tre croci, tre croci pesanti, che si aggiungono alle tante altre conficcate nel corpo tanto bello quanto delicato del nostro Paese.
Noi cittadini italiani siamo intervenuti costruendo ovunque, senza alcun rispetto per la natura, opere assurde, male realizzate, senza qualità.
Anche oggi, ripetendo litanie ben note, ci stiamo consolando favoleggiando di una natura eccezionalmente violenta ed imprevedibile: bugie, tutte bugie.
Anche oggi, secondo una prassi monotona, versiamo lacrime sulle bare accompagnate da applausi fuori luogo – il rispetto della morte richiede meditazione e silenzio – promettiamo una ricerca rapida delle responsabilità ed una punizione esemplare dei responsabili, garantiamo che sciagure di tal fatta non si ripeteranno.
Dopo poche ore si ritorna alle consuete attività, al solito malcostume ma, purtroppo, anche se si diventasse improvvisamente rispettosi della natura e delle leggi non avremmo la garanzia di essere immuni da altri eventi catastrofici. I danni causati in passato sono tanto gravi e radicali da temere che siano irreversibili e, nonostante le conseguenze luttuose che scontiamo tutti, perseveriamo nel comportarci in modo dissennato stimolati in questo da leggi assurde (abbiamo dimenticato il Piano Casa che doveva essere distribuito alle Cancellerie di mezzo mondo con somma urgenza?), protetti dalla indifferenza e, non raramente, dalla connivenza di chi dovrebbe vigilare.
In questa dissestata Italia opera però la Protezione Civile impegnata a portare soccorso e a tentare di contenere gli esiti negativi di frane, inondazioni, incendi, eruzioni, esplosioni e così via. Bertolaso, novella madonna pellegrina, è ovunque a rincuorare, sollecitare, coordinare. E le cosiddette autorità locali, i sindaci, che fanno?
I sindaci (individuati dalla legge 225 del 1992 quali responsabili degli interventi di protezione civile in ambito comunale) come organizzano le forze di cui dispongono, quali misure adottano, di quali strumenti si muniscono per eliminare o, quantomeno, contenere gli eventuali danni a uomini e cose causati da un evento disastroso?
Ci sono molti primi cittadini sensibili, solerti e previdenti che si sono dotati di tutto quanto occorre per fronteggiare l’emergenza ma ce ne sono anche molti che non hanno preso la pur minima misura preventiva.
I comuni, in particolare quelli severamente esposti a rischi di vario tipo (sismico, idraulico, industriale, geologico, incendi boschivi ecc.) devono dotarsi del Piano Comunale di Emergenza.
Il Piano non è altro che lo strumento operativo che fornisce le procedure dettagliate sul chi fa che cosa quando avviene un evento che incide in modo più o meno grave sulla vita di una collettività.
Il Piano deve essere continuamente aggiornato per tenere in opportuna considerazione le variazioni che un organismo vivo come una collettività continuamente introduce nel proprio comportamento e nel territorio in cui vive.
Il Piano deve essere reso noto alla popolazione che può essere coinvolta in eventi disastrosi: la corretta informazione e le istruzioni precise sul comportamento da tenere in caso di emergenza sono l’unico mezzo per contenere gli effetti deleteri del panico.
Il Piano deve essere testato continuamente con esercitazioni che coinvolgano gli operatori ( sindaco, strutture tecniche, forze dell’ordine, vigili del fuoco, strutture sanitarie, volontari di protezione civile e, più in generale, tutti coloro che possono essere chiamati ad intervenire) e la popolazione.
A Mantova come siamo messi?
Possiamo contare su una valida organizzazione – alcuni elementi inducono al pessimismo – o dobbiamo, di tanto in tanto, portare la classica candela alla Madonna sperando che ci protegga?
Ing. Alberto Mazzocchi
di Alberto Mazzocchi
Il Veneto va sott’acqua,
Bossi va in Veneto,
l’acqua va alla bassa,
Pompei va in briciole,
Bondi va a Pompei,
l’economia va a rotoli,
la classe operaia va in C I G,
il capitale va all’estero,
la Fiat va via,
Benigni va forte,
Bertolaso va in pensione,
la Borsa va giù,
l’euro va su,
Ghedini ma va là,
Berlusconi va a escort,
l’Italia va in malora.