Farsi da parte? Carlo Pesta non ci pensa proprio, è
deciso a gestire il Sociale fino alla scadenza del contratto con i
palchettisti. O almeno «finché non metteranno mano al portafogli per
darmi i soldi che mi devono». Il “metteranno” è riferito al
direttivo del teatro, i “debiti” ad anticipazioni di cassa e servizi
vari. Dice il presidente della Fondazione Arteatro. Intanto la stagione
lirica sembra evaporata al sole di luglio e il futuro del teatro accende
il dibattito.
È stizzito Pesta. Ce l’ha sempre e ancora con Guido Benedini: «Agisce
come se fosse da solo, ma fino al 2011 la gestione del Sociale è mia».
L’ultimo “sgarbo” risale alla stretta di mano del presidente dei
palchettisti con il sindaco Nicola Sodano (la scorsa settimana) e
all’ipotesi di un’associazione pubblico-privata per ridare slancio al
teatro. Come se Pesta fosse già uscito di scena, appunto. A proposito, la
lettera datata 31 maggio 2010 con la quale la Fondazione Arteatro
formalizzava sgombero e disdetta delle utenze? «Era successiva a un
incontro con il direttivo nel quale si era pattuito di risolvere tutto in
modo amichevole e ripartire dalla lirica - ripete Pesta -. E poi Benedini
ha respinto quella lettera, appellandosi all’articolo 13 del contratto».
Quello che impone un anno di preavviso. Così la Fondazione Arteatro ha
desistito, attenendosi scrupolosamente alle carte. Questa la versione di
Arteatro, impossibile raccogliere la replica di Benedini (ieri il
cellulare squillava a vuoto). Quanto alla lirica, l’accordo scritto
prevede che a organizzare il cartellone sia Pesta ma per conto del
Sociale, al quale resta la titolarità delle opere e del contributo
statale. Il progetto per il 2010 era stato depositato al ministero lo
scorso autunno, secondo i termini previsti. Ma è rimasto lettera morta:
incalzato dai coproduttori delle opere, Pesta aveva sollecitato il sì
definitivo del Sociale entro il 10 luglio.
Fin qui la polemica alla luce del sole, oltre c’è un vespaio di
avvocati, querele, minacce di messa in mora, lettere e controlettere
dov’è bene non mettere il naso. Meglio dar conto del dibattito sul
futuro del teatro, una discussione talmente slabbrata e riccorente da
mordere la coda al passato. Un disco rotto che ad ogni giro si arricchisce
però di nuove tracce. La tristezza di Paolo Ghidoni di fronte al presente
del Sociale è così profonda da suonare «quasi biblica». Il violinista
sposa la missione di «restituire il teatro ai mantovani» e propone la
sua ricetta in due parole: orchestra e coro. Stabili. «Creerebbero
affezione, vicinanza con il pubblico mantovano, altrimenti difficile da
rimettere insieme - argomenta Ghidoni -. E poi lo scopo sarebbe duplice,
perché l’orchestra e il coro offrirebbero anche un orizzonte, una
prospettiva ai nostri musicisti costretti altrimenti a lasciare Mantova».
Il violinista è convinto della bontà della sua idea, che avrebbe
suscitato l’interesse della nuova amministrazione. «Serve progettualità
- insiste Ghidoni -, non è sufficiente ristrutturare i muri, occorre
rifondare la visione complessiva. Il Sociale è uno dei teatri più
antichi e il suo palcoscenico è secondo soltanto a quello della Scala».
Il direttore del Campiani (in scadenza) Giordano Fermi è meno
ottimista. «La situazione attuale è il risultato di anni e anni di
inconsistenza - osserva -, l’obiettivo non può essere soltanto quello
di fare la stagione. Altrove e intorno a noi ci sono teatri stabilizzati
già da tempo, si tratta di un processo lento. Pensare oggi di fare del
Sociale un teatro stabile è un’utopia». Il maestro Fermi traccia una
geografia larga (ma non troppo) che tiene insieme Milano, Bergamo,
Cremona, Bologna, Reggio Emilia, Parma, Verona. Che fare, quindi, a
Mantova? «Tenersi stretto il titolo di teatro di tradizione, tentando di
rabberciare le cose con accordi, idee, l’unione delle forze. Ma potrebbe
non bastare, il problema investe la sensibilità del pubblico. Manca una
cultura di base, uno scoglio anche per la gestione più sensata e oculata.
La verità è che oggi mettere in piedi un teatro è angosciante».
Lapidario il basso buffo Enzo Dara: «Il teatro deve essere
restaurato, reso bello e sfavillante. Tutto il resto non conta, è solo
chiacchiera».
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